lunedì 15 settembre 2008

Frutta all’etilene



 
 

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tramite Scienza in cucina di Dario Bressanini il 17/08/08

Dal punto di vista biologico i frutti sono i semi e gli ovari dei fiori delle piante. Chiamiamo invece "verdura" altre parte commestibili delle piante che non siano i frutti: ad esempio le foglie (come l'insalata), i fiori (come i carciofi), o le radici (come le carote). In cucina tuttavia questa distinzione rigida non è sempre seguita: i pomodori ad esempio sono, botanicamente, dei frutti, come anche le olive o i peperoni. Gastronomicamente parlando però siamo abituati a considerare frutti solamente quei vegetali che hanno un alto contenuto zuccherino e che risultino più o meno dolci al gusto.

Perché cuciniamo i vegetali

Frutta e verdura hanno una struttura interna simile: le loro cellule contengono moltissima acqua, sali minerali, amidi, zuccheri, acidi, sostanze aromatiche e moltissime altre sostanze chimiche. Le pareti delle cellule sono prevalentemente costituite da cellulosa, che noi esseri umani non siamo in grado di digerire (visto che non siamo erbivori). Uno dei motivi per cui i vegetali vengono spesso cotti è per disgregare le pareti cellulari di cellulosa e liberare l'acqua e le sostanze nutrienti, oltre che gustose, che altrimenti rimarrebbero intrappolate nelle cellule.

Lo sapevate che…
Se l'insalata che avete in frigorifero sembra un poco appassita, è meglio farla rinvenire con un bel bagno in acqua fredda per una decina di minuti: le foglie ritroveranno, almeno un poco, il loro turgore.

Non è quindi necessariamente vero che mangiare verdura o frutta cruda implichi una maggior assunzione di sostanze nutrienti e benefiche, nonostante questa idea sia molto popolare. Di certo non si deve neanche eccedere nel senso opposto, perché la maggior parte delle sostanze chimiche contenute in frutta e verdura sono molto delicate e instabili al calore, quindi le cotture non dovrebbero quasi mai essere molto prolungate se si vuole mantenere alto il potere nutritivo dei vegetali.

Alcuni vegetali possono contenere tanta cellulosa, ad esempio le carote, il cui cuore diventa via via più duro crescendo. Altri vegetali invece ne contengono molto poca. Ad esempio l'insalata: le sue foglie rimangono belle rigide e croccanti grazie all'acqua contenuta. Se questa diminuisce le cellule cominciano a sgonfiarsi e l'insalata "appassisce". Se l'insalata che avete in frigorifero sembra un poco appassita, è meglio farla rinvenire con un bel bagno in acqua fredda per una decina di minuti: le foglie ritroveranno, almeno un poco, il loro turgore.

La respirazione di frutta e verdura

Le pareti cellulari delle cellule vegetali sono molto più resistenti di quelle animali, perché devono mantenere più a lungo l'acqua e le altre molecole contenute, per permettere ad esempio ai frutti di continuare a "vivere" e "respirare" anche dopo essere stati staccati dalla pianta. Certo! Frutta e verdura sono ancora vive e respirano quando le mettiamo nel carrello della spesa :-) a differenza, ad esempio, di una bistecca.

Dal punto di vista evolutivo  un frutto che "vive" anche dopo che è stato staccato dalla pianta permette alla specie di diffondersi in una zona più ampia, e di generare più figli.

Avevamo già accennato alla respirazione dei vegetali qualche tempo fa. Facciamo un rapido riassunto.
Per mantenere le funzioni vitali una volta recisi o staccati dalla pianta, i vegetali solitamente combinano l'ossigeno dell'aria con una molecola organica immagazzinata nei tessuti, solitamente uno zucchero, per produrre energia, calore e sintetizzare altri composti, con la produzione finale di acqua e anidride carbonica. In generale la "sopravvivenza" di un vegetale dopo il raccolto è inversamente proporzionale alla sua velocità di respirazione. La vita di broccoli e lattuga, ad esempio, è molto più breve di quella di patate, cipolle e limoni, perché hanno delle velocità di respirazione molto più elevate.

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La respirazione è influenzata da una serie di fattori, quali la temperatura, la luce, la composizione dell'atmosfera, l'umidità, la presenza di stress e così via. Una volta raccolta, frutta e verdura viene  immagazzinata in attesa di essere venduta. In questo lasso di tempo si cerca di diminuire la velocità di respirazione, per "allungargli la vita".

La temperatura viene abbassata a 2-5 °C, senza mai andare sotto lo zero, per non danneggiare le cellule con la formazione di cristalli di ghiaccio. Alcuni vegetali però, tipicamente quelli tropicali, subiscono degli stress se la temperatura scende sotto i 10-12 °C.

Poiché la respirazione consuma ossigeno, un buon modo per rallentarla è sottrarlo dall'atmosfera. Questo è il motivo per cui alcune frutte e verdure vengono vendute ricoperte di una pellicola trasparente: per limitare il contatto con l'ossigeno e rallentare la respirazione. I broccoli, che hanno una respirazione elevata, sono spesso venduti ricoperti di plastica. Qualcuno di voi avrà forse pensato "l'ennesimo spreco inutile di plastica e imballaggi", e invece in questo caso ha una funzione ben precisa e utile.

Su grande scala, nei centri di stoccaggio, l'atmosfera viene privata quasi totalmente di ossigeno, arrivando mediamente a livelli del 2-3% (i valori precisi dipendono dal tipo di vegetale). L'ossigeno non può essere privato del tutto perché in questo caso i nostri amici vegetali inizierebbero una respirazione anaerobica, senza ossigeno. Tutti tranne l'avocado, come abbiamo visto, che non è in grado di respirare senza ossigeno e quindi deperirebbe rapidamente.

Assieme alla riduzione di ossigeno, si può aumentare anche la percentuale di CO2 presente nell'atmosfera.

La maturazione della frutta

I frutti subiscono una serie di trasformazioni a mano a mano che raggiungono la maturità biologica.  Aumentano di peso, accumulano acqua, zuccheri, amido e acidi organici. Nella fase finale della maturazione spesso la buccia dei frutti cambia colore e la clorofilla verde si degrada, rivelando gli altri coloranti sottostanti.

Lo sapevate che…
La frutta troppo matura può produrre una marmellata o confettura troppo liquida, perché con la maturazione la pectina si trasforma in acido pectico, meno efficace come gelificante

Il frutto comincia ad ammorbidirsi, perché gli enzimi liberati dalle cellule cominciano a sciogliere la pectina che tiene insieme le varie cellule.

La pectina è abbondante nei frutti acerbi, ed è la responsabile principale della gelificazione delle marmellate e delle confetture. A mano a mano che il frutto matura la pectina si trasforma in acido pectico, meno efficace come gelificante. E' per questo che frutta troppo matura può produrre una marmellata o confettura troppo liquida.

A mano a mano che il frutto matura, le pareti cellulari si dissolvono, liberando i succhi contenuti. Questo rende il frutto più "succoso", anche se in realtà l'acqua contenuta non è aumentata.  Durante la maturazione alcuni frutti trasformano l'amido in zuccheri: saccarosio, fruttosio e glucosio.

The final countdown

L'angolo chimico
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L'etilene

I frutti si possono classificare grossolanamente in due categorie a seconda di come si comportano nella fase finale della maturazione. Alcuni frutti aumentano la produzione di etilene e velocizzano la respirazione. Questi frutti vengono chiamati climaterici. I frutti che non producono grandi quantità di etilene e non aumentano la respirazione nella fase finale della loro vita sono non-climaterici.

L'etilene è un ormone vegetale gassoso che viene prodotto dalle piante a partire dall'amminoacido metionina. Ne serve una piccolissima quantità per innescare la maturazione dei frutti climaterici: pochi milligrammi o addirittura microgrammi per kg (quantità che i chimici indicano con ppm o ppb: parti per milione o parti per miliardo). Una volta innescata la produzione tuttavia, i frutti climaterici ne producono in quantità. Ad esempio la banana, a 15 °C, produce 5 microlitri di etilene per kg ogni ora. L'avocado più di 100 mentre il limone (frutto non-climaterico) meno di 0.1.

Vi ricordate che la volta scorsa avevo suggerito di chiudere in un sacchetto di carta un avocado con una mela o una banana per farlo maturare più in fretta? E' l'effetto dell'etilene.

L'etilene viene prodotto in quantità anche quando la frutta è sottoposta a stress. Ad esempio quando una mela prende una botta, la zona circostante scurisce, per effetto della polifenolossidasi, e rammollisce, per l'effetto dell'etilene prodotto.

I frutti non climaterici

I frutti non climaterici, una volta staccati dall'albero, interrompono la maturazione, e la loro respirazione diminuisce pian piano. Tra questi vi sono: mirtilli, more, lamponi, fragole, ciliege, cetrioli, uva, pompelmi, limoni, lime, olive, arance, peperoni, ananas, melanzana, zucca, melograno.

L'etilene ha anche degli effetti su alcuni frutti non climaterici, ma senza alterare le qualità organolettiche. Ad esempio con i limoni e gli aranci stimola la degradazione della clorofilla della buccia e porta alla colorazione gialla o arancio ma non altera il loro contenuto zuccherino o la loro acidità.

Se avete acquistato un frutto non climaterico, non sperate che migliori le sue qualità organolettiche con il tempo. La cosa migliore che potete fare è… mangiarlo subito, sperando (non potete fare altro) che l'agricoltore lo abbia raccolto dalla pianta all'apice della qualità.

I frutti climaterici

Nei frutti climaterici l'etilene segnala al frutto che è arrivata l'ora di ammorbidirsi e, spesso, cambiare colore alla buccia, degradando la clorofilla e, nei frutti rosso/viola/blu, iniziando la produzione di antocianine, responsabili della colorazione. La respirazione aumenta e raggiunge un picco, per poi diminuire.

Sono frutti climaterici: mela, albicocca, caco, avocado, banana, fico, kiwi, mango, nettarina, papaya, pesca, pera, prugna, cocomero, melone, pomodoro.

Ingannare i frutti

maturazione.jpgGli agricoltori sfruttano in vari modi le caratteristiche climateriche dei frutti. Poiché più un frutto è maturo più è delicato, cogliendolo quando ancora non è all'apice della maturazione, può  essere maneggiato con minore cura e può sopportare il trasporto a grande distanza. Non è raro che pomodori, pesche o albicocche, ad esempio, vengano raccolti ancora verdi. Matureranno una volta arrivati a destinazione. Quando in Europa arrivano le banane dal sud America o dall'Africa, sono completamente verdi. Un poco di etilene soffiato nei locali di stoccaggio e diventano giallo brillante, tutte contemporaneamente, pronte per essere vendute. Analogamente i pomodori: da verdi a rossi in pochissimo tempo e tutti contemporaneamente. Magie dell'etilene. Un bel vantaggio per il venditore. Certo, con questo processo accelerato a comando, non potranno essere così ricchi di zucchero e aromi come quelli colti dalla pianta a maturazione completa. Se potete, acquistate frutta di stagione raccolta non troppo lontano da voi: è probabile che sia rimasta sulla pianta più a lungo, visto che non ha dovuto sopportare lunghi tragitti per arrivare al consumatore. Questo è uno dei casi in cui acquistare a "Km 0" ha senso. Abbiamo visto in passato come l'applicazione "ideologica" del Km 0 sia piuttosto sciocca e abbia poco senso, e come i benefici sull'ambiente siano dubbi. In questo caso però i benefici per il gusto sono molto più tangibili. In più, varietà di frutta molto delicata vengono vendute solo localmente, perché i danni del trasporto sono molto elevati. E le varietà di frutta che resistono al trasporto non è detto che siano anche quelle più aromatiche o gustose.

Purtroppo molti frutti, climaterici e non, sono invece raccolti prima di raggiungere l'optimum sulla pianta, e le condizioni di stoccaggio cercano di rimediare parzialmente a questo: alcuni frutti diventano più dolci con il tempo perché l'amido continua ad essere trasformato in zucchero. Tra questi mele, kiwi, banane, mango, papaya e pere. Altri frutti invece cambiano colore, consistenza e aroma, ma non sviluppano più zucchero: ad esempio albicocche, meloni, fichi, pesche, nettarine e prugne.

Ricordate comunque che i frutti sono vivi, e continuano a respirare, consumando zuccheri. Non stupitevi se le mele raccolte sei mesi prima e immagazzinate in atmosfera controllata e a bassa temperatura hanno un basso contenuto zuccherino: qualche cosa devono pur "mangiare" per respirare.

L'avocado fa gruppo a se, perché, se ricordate, comincia a maturare solo una volta staccato dalla pianta, le cui foglie producono un inibitore della produzione dell'etilene.

L'etilene può essere somministrato anche direttamente alle piante.  I chimici hanno messo a punto composti di sintesi capaci di rilasciare etilene nelle piante in maniera controllata. Ad esempio l'acido 2-cloroetilfosfonico venduto con il nome di Ethrel. E' solubile in acqua e viene assunto dalle piante dove poi si decompone per dare etilene.

ETHREL

Fitoregolatore stimolante i processi di colorazione e di maturazione di pomodoro, tabacco e melo. Su melo regola lo sviluppo vegetativo e l'alternanza di produzione. Assorbito dalla vegetazione, libera etilene accelerando e rendendo più omogenea la colorazione e la maturazione di pomodoro, tabacco e melo. Il suo impiego rende possibile la raccolta meccanica, consente di programmare le raccolte e ne riduce il numero. Razionalizza tutte le operazioni di lavorazione e di stoccaggio successive alla raccolta. Su melo regola lo sviluppo vegetativo e migliora la produzione sotto l'aspetto quali-quantitativo.

Consigli per il corretto impiego
Nebulizzare finemente l'irrorato utilizzando preferibilmente ugelli a cono. Le basse temperature (<12°C) riducono l'efficacia del trattamento. Su varietà ibride di pomodoro da industria, con temperature elevate, utilizzare il dosaggio inferiore, eventualmente frazionando gli interventi.
*Avvertenze (Melo): Una risposta più o meno efficace del prodotto è legata alle condizioni ambientali, allo stadio vegetativo e allo stato fisiologico della pianta. Ethrel accelera il processo di maturazione: l'impiego sui frutti può influire negativamente sulla durata del periodo di conservabilità. Non impiegare più di 1,6 L/ha di Ethrel per ogni ciclo vegetativo. E' consigliabile utilizzare Ethrel solo dopo aver effettuato saggi varietali preliminari o su consiglio degli Organi Ufficiali preposti.  

Riepilogo Frutti
non climaterici climaterici
mirtilli mela
more albicocca
lamponi caco
fragole avocado
ciliege banana
cetrioli fico
uva kiwi
pompelmi mango
limoni nettarina
lime papaya
olive pesca
arance pera
peperoni prugna
ananas cocomero
melanzana melone
zucca pomodoro
melograno  

A presto Dario Bressanini

Bibliografia


 
 

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Omaggio floreale a Darwin



 
 

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tramite Scienza in cucina di Dario Bressanini il 23/08/08

Sono in montagna per l'ultimo scorcio di vacanze e per questa volta non parliamo di bellezze da mangiare ma solo da vedere: i fiori. Qualche giorno fa, passeggiando nel parco naturale dell'Alpe Veglia

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Il parco naturale Alpe Veglia

stavo osservando i fiori alpini e mi sono reso conto che la maggioranza di essi era di colore blu/violetto. Il secondo colore più rappresentato era il giallo, mentre il rosso era quasi del tutto assente.

Guardate un po' le foto che ho fatto

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Un fiore ci appare colorato di blu, ad esempio, perché i suoi petali contengono una o più sostanze chimiche che riflettono verso i nostri occhi la luce blu e assorbono le altre frequenze presenti nella luce solare. Ora, perché mai i colori dei fiori non sono distribuiti uniformemente? Perché il blu è così diffuso in montagna e il rosso praticamente assente? (Ebbene sì, il vizio di chiedere "perché" non ce l'ho solo in cucina :lol: )

L'evoluzione, l'ape e il fiore

Se invochiamo gli insegnamenti del buon Charles Darwin (di cui nel 2009 ricorrerà il bicentenario della nascita e i centocinquant'anni dalla prima pubblicazione dell'Origine delle Specie) la risposta è straordinariamente semplice. I colori dei fiori sono dei "segnali" per gli insetti, un po' come se vi fosse un cartello che dice "qui nettare gratis" :D

Da parte loro gli insetti, in cambio del cibo, trasportano il polline e fecondano altri fiori della stessa specie su cui si posano, contribuendo alla conservazione e alla diffusione di quella pianta.

Moltissimi insetti impollinatori in montagna sono imenotteri appartenenti alla famiglia degli apidi (bombi, api, …): questa famiglia (e in generale gli insetti) percepisce i colori in modo diverso dal nostro. Noi umani percepiamo i colori perché nel nostro occhio vi sono dei "fotorecettori" sensibili ai colori Rosso, Verde e Blu. Tutti gli altri colori vengono percepiti come una combinazione di questi tre colori fondamentali.

Più precisamente un occhio umano medio percepisce come colori le lunghezze d'onda della luce che vanno dai 400 ai 700 nanometri circa

Le api invece percepiscono la luce con lunghezze d'onda tra i 300 e i 630 nanometri perché hanno dei recettori sensibili al verde, al blu e all'ultravioletto (UV). Quest'ultimo non è rivelato dall'occhio umano.

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Poiché non sono sensibili al rosso, un fiore di questo colore avrebbe vita molto dura nel farsi "vedere" dalle api, mentre un fiore verde avrebbe difficoltà a farsi notare da chiunque, poiché sarebbe difficile da distinguere dalle foglie, dall'erba e dal resto della vegetazione. I fiori con una forte componente blu invece sono molto visibili dagli apidi. I fiori gialli possono essere visti dalle api perché eccitano il fotorecettore verde (ricordate che giallo=rosso+verde) ma possono anche essere visti da alcune farfalle la cui sensibilità verso le radiazioni rosse è maggiore di quella delle api.

Quindi, la spiegazione della apparente disomogeneità nella distribuzione del colore dei fiori è prettamente evoluzionistica: i fiori poco visibili agli insetti impollinatori non riescono a diffondersi e a preservare la specie, quelli molto visibili prevalgono. Quindi rosso no e blu si.

E i fiori bianchi?

Non ci siamo dimenticati dei fiori bianchi, ma prima voglio ricordarvi cosa succede quando vediamo un oggetto bianco: i nostri recettori RGB (Red=rosso, Green=verde, Blu=blu) sono tutti e tre eccitati più o meno allo stesso modo, perché l'oggetto riflette in modo simile la luce rossa, quella verde e quella blu. Il nostro cervello miscela i tre segnali che arrivano dall'occhio e "genera" il bianco.

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Più precisamente, viene generato il bianco-umano. Eggià, perché le api, e gli insetti in genere, come abbiamo visto hanno dei recettori che reagiscono a frequenze diverse. Possiamo definire un oggetto di colore bianco-ape se riflette in modo simile luce delle tre lunghezze d'onda a cui sono sensibili i fotorecettori delle api, e quindi il verde, il blu e l'UV.

Ora torniamo ai nostri fiori bianco-uomo. Saranno anche bianco-ape ? Sicuramente riflettono il blu e il verde, altrimenti non sarebbero bianco-uomo. Riflettono anche il rosso ma come abbiamo visto  le api non sono sensibili a questa radiazione. Per essere bianco-ape dovrebbero anche riflettere gli ultravioletti, ma vari studi effettuati sui fiori hanno dimostrato che generalmente i fiori bianco-uomo assorbono i raggi UV, e quindi appaiono fortemente colorati alle api. Sebbene i fiori bianchi appaiano abbondanti intorno a noi, questo non è vero nel mondo degli insetti. Per molto tempo si è addirittura pensato che non esistessero dei fiori bianco-ape. In seguito sono stati scoperti, ma sono estremamente rari. Perché ? Nonno Darwin ci viene ancora in aiuto: le api, oltre ad avere dei fotorecettori diversi, non sono sensibili, per quanto possa sembrare strano a noi uomini, alle variazioni di luminosità.

Il nostro cervello miscela i segnali RGB e li interpreta in un sistema percettivo di tipo HSB (Hue, Saturation, Brightness, cioè tinta, saturazione e luminosità). In altre parole distinguiamo due colori per la loro tinta, per la loro luminosità e per la loro saturazione (potremmo chiamarla grossolanamente l'intensità di colore). Le api mancano totalmente del canale della luminosità e quindi non possono distinguere un bianco-ape da un grigio-ape da un nero-ape, perché differiscono solo per la luminosità. E' per questo che, più correttamente, alcuni studiosi della visione delle api preferiscono chiamarli collettivamente neutro-ape. Tornando ai fiori bianco-ape, non disponendo del canale della luminosità, e non avendo il recettore del rosso, le api avrebbero difficoltà a distinguere un fiore neutro-ape dai colori tipici dello sfondo: la vegetazione, il terreno e la roccia che appaiono, agli occhi della nostra ape, anche loro più o meno di color neutro-ape. Noi umani saremmo in grado di distinguerlo, perché un fiore bianco risulta solitamente più luminoso dello sfondo, ma le api non sono in grado di rilevare la diversa luminosità.

Per molto tempo si è pensato che il sistema visivo degli insetti si fosse evoluto adattandosi ai colori dei fiori, modificandosi per diventare più efficace nella localizzazione del cibo. Gli ultimi studi invece dimostrano che è successo esattamente il contrario: la comparsa dei fotorecettori negli occhi degli insetti è precedente alla comparsa dei fiori colorati e gli studiosi concordano nel ritenere che siano stati i colori dei fiori ad evolversi per rendersi più "attraenti" verso gli insetti impollinatori.

Forse qualcuno di voi starà pensando: "nel mio giardino ci sono un sacco di fiori rossi: rose, tulipani, dalie …". Certamente! ma molto probabilmente li avete comperati dal fiorista. In altre parole non sono più sottoposti ad una pressione selettiva naturale perché questa è stata sostituita dall'evoluzione guidata dall'uomo, molto più veloce, esattamente come è successo per la maggior parte della frutta e verdura che comperiamo dal fruttivendolo: quei peperoni e quei pomodori non esistono in natura. Peperoni e fiori insomma non devono più "piacere" agli insetti per sopravvivere ma devono piacere a noi uomini.

Non riesco a pensare ad una risposta più semplice, elegante e convincente alla domanda posta  all'inizio dell'articolo, e non riesco davvero ad immaginare come, nel terzo millennio, siano ancora in molti a non credere  alla teoria darwiniana dell'Evoluzione.

Questo articolo, oltre che dallo splendido panorama dell'Alpe Veglia, mi è stato ispirato anche dalla lettura di un "dialogo filosofico" sui colori visti dalle api sul Blog l'estinto, a sua volta ispirato dal libro di Paola Bressan "il colore della Luna".

Alla prossima, Dario Bressanini

Bibliografia


 
 

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Sapori d’alta quota



 
 

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tramite Scienza in cucina di Dario Bressanini il 29/08/08

Ancora in montagna, questa volta in un alpeggio ad alta quota, in valle Vigezzo. Negli alpeggi si può trovare una cosa ormai diventata rarissima: il burro da panna cruda, non pastorizzata.

Ecco qui il mio acquisto

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E' stato preparato in mattinata; potete vedere come trasudi ancora acqua

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Il colore più intenso rispetto a quello a cui forse siete abituati è dovuto ai fiori nell'alimentazione estiva delle vacche. E per lo stesso motivo l'aroma e il gusto sono molto più intensi del burro industriale.

Se ricordate, tempo fa avevamo parlato del burro,  e di come quello ottenuto da centrifuga fosse qualitativamente migliore di quello da affioramento. Anche negli alpeggi ora usano le centrifughe, per separare la crema di latte, o panna. Però, a differenza del burro industriale, la temperatura fresca dell'alta quota permette alla panna di essere utilizzata senza pastorizzarla. La pastorizzazione nel normale processo industriale di produzione del burro serve a ridurre la carica batterica. Non essendo pastorizzata la crema di latte d'alpeggio mantiene intatto tutto il suo aroma, e così il burro che se ne ricava.

Ma ad alta quota si possono trovare altri tesori: blu, buonissimi e tantissimi! Mirtilli!

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Sono buonissimi freschi, da soli, con della panna montata, o con dello zucchero e limone, o yogurt intero. Ne ho raccolti un po' per fare della confettura.

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L'ultimo tesoro l'ho visto in cielo: due grandi e maestosi volatili (aquile? Corvi imperiali, grazie Alf e Any)

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Purtroppo le vacanze sono finite, ma l'estate e il caldo non ancora per cui la prossima volta, e sul numero di Settembre di Le Scienze, parleremo di granita!

Dario Bressanini


 
 

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Il buco nero al CERN e la noce moscata



 
 

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tramite Scienza in cucina di Dario Bressanini il 03/09/08

Probabilmente avrete già letto dell'esperimento che il 10 settembre inizierà  al CERN. C'è chi teme che durante l'esperimento si possa formare un mini buco nero che finirebbe con l'inghiottire la terra. Gli scienziati del CERN ribattono che

non c'è assolutamente nulla da temere: ci sono scarse possibilità che l'acceleratore formi un buco nero capace di porre una minaccia concreta al pianeta
La probabilità che questo accada è estremamente piccola.

blackhole.jpgDormirò sonni tranquilli, ben sapendo che rischio di più ogni mattina andando in ufficio sull'autostrada Milano-Como.

Scarse possibilità non vuol dire zero, ma questo è assolutamente normale nella scienza e nella vita di tutti i giorni (lo zero esiste solo in matematica :lol: non nella realtà).
Tuttavia pare esistere una incapacità di molte persone a percepire, e valutare correttamente, rischi governati da probabilità piccolissime. Tanto è vero che già nella blogosfera si trovano post che ricamano su quell'onestissimo "scarse" pronunciato dallo scienziato del CERN che probabilmente non si è reso conto che quando si parla al grande pubblico bisogna misurare e meditare ogni singola parola, per evitare che il senso venga stravolto.

L'opinione pubblica vuole una certezza del 100%, cosa che nessuno scienziato onesto, in nessun campo, è in grado di dare, semplicemente perchè la scienza non funziona così.

Stavo leggendo con piacere l'articolo di Daniela Ovadia sui meccanismi psicologici della paura della fine del mondo,  quando leggo, su Kela Blu, la notizia di una intossicazione da… noce moscata.

Nel numero in edicola un redattore di certo frustrato ha scritto che nella torta di mele invece di 2 PIZZICHI di NOCE MOSCATA ne vanno 20. Beh, non ci crederete, quel redattore frustrato ha costretto la rivista a ritirare decine di migliaia di copie e spedito all'ospedale 4 lettori che avevano preparato la torta. Pare che in dosi elevate, la noce moscata sia un trionfante allucinogeno

nocimoscate.jpgLa noce moscata contiene due sostanze, la Miristicina e la Elemicina, che pare abbiano poteri allucinogeni, ed è riportato almeno un caso in cui un bambino, ingerendo due noci è entrato in coma ed è morto poche ore dopo. Anche senza arrivare alla morte, grandi dosi di noce moscata possono indurre convulsioni, nausea, palpitazioni e danni al fegato.

Ora, le noci moscate sono vendute ovunque, e probabilmente la maggior parte di voi ne ha una in cucina, in un barattolino di vetro con la sua piccola grattugia. Le usiamo senza problemi per cucinare, nonostante sia più probabile finire all'ospedale (o al cimitero) per una ingestione di noce moscata che finire inghiottiti dall'improbabile buco nero del CERN.

Ammetto di non capire come funziona il cervello umano: perchè c'è chi guarda con sospetto un colorante artificiale nella lista di ingredienti di una merendina e poi non ha problemi con la noce moscata (e magari aspira con piacere il fumo di una sigaretta mentre legge l'etichetta, e medita, alla prossima spesa, di comperare una merendina "biologica")? Perché si ha paura che il numero che descrive la probabilità che si crei il buco nero a Ginevra non sia esattamente zero, anche se è una quantità pazzescamente piccola, ma si accettano dei pericoli ben più grandi quando mangiamo tutti i giorni? Forse perché non sono sottolineati da qualche etichetta o strillati dai media? Forse perché ci nutriamo di cose pericolose da ben prima che iniziasse questa fobia manichea che pretende di catalogare le molecole in buone e cattive, dimenticando il buon Paracelso secondo cui la dose fa il veleno? Forse in qualche modo le "cose che abbiamo sempre mangiato" ci appaiono a rischio zero?
Con buona pace degli economisti dobbiamo semplicemente concludere che l'uomo è un animale irrazionale?

Dario Bressanini


 
 

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Il diagramma di fase della granita



 
 

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tramite Scienza in cucina di Dario Bressanini il 08/09/08

Non c'è niente di meglio, per placare la calura estiva, di una rinfrescante granita alla frutta. Era un po' che ne volevo parlare: da quando durante le vacanze pasquali ho visitato la Sicilia orientale e ho potuto gustato una fantastica granita alla mandorla al Caffè Sicilia, a Noto (se siete da quelle parti, oltre alla splendida architettura barocca, andate a gustarvi qualche delizia, ne vale veramente la pena)

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La granita alla mandorla del Caffè Sicilia

L'origine precisa di questa preparazione è sconosciuta, ma è noto come già nell'antichità si usasse conservare la neve, compattandola e coprendola di sterpi e terra, per poi utilizzarla nei mesi estivi aggiungendovi dei succhi di frutta. In tempi più recenti, con la scoperta che l'aggiunta di sale al ghiaccio portava ad una diminuzione della temperatura, la neve conservata miscelata al sale da cucina veniva utilizzata come refrigerante per preparare granite direttamente raffreddando uno sciroppo di frutta. Pian piano si differenziarono due prodotti: il "sorbetto granito" (evolutosi poi nella odierna granita) e il "sorbetto gelato" (che ora chiamiamo semplicemente sorbetto). Il "gelato moderno" (con l'aggiunta di latte e uova) venne più tardi. Per una discussione storica esauriente sull'argomento vi rimando al bel libro di Luca Caviezel Scienza e tecnologia di sorbetti, granite e dintorni (Chiriotti editore)

E' opinione comune in Italia che la granita abbia raggiunto la perfezione in Sicilia, grazie a bravi artigiani gelatieri ed alla neve proveniente dalle pendici dell'Etna. Se non avete mai assaggiato una granita alla mandorla, o al caffè, o al melone, e nel luogo dove vivete potete trovare solo delle pallide imitazioni a base di ghiaccio tritato con aggiunta di aromi in bottiglia (tipo grattachecca), potete provare a prepararla voi stessi.

Dal punto di vista chimico-fisico i componenti principali di una granita sono il saccarosio, il normale zucchero da cucina, e l'acqua. La percentuale di zucchero in una granita può variare tra il 15 ed il 20 per cento, tenendo conto ovviamente anche degli zuccheri già presenti nella frutta che si utilizza. Può sembrare una percentuale elevata, ma tenete presente che la sensazione di dolcezza è fortemente attenuata alle basse temperature.

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Granitore verticale di Poerio Carpigiani

Non è possibile ridurre troppo la percentuale di zucchero perché, oltre a dolcificare, lo zucchero ha una funzione fondamentale al fine di ottenere la consistenza desiderata della granita. Per questo non può essere sostituito con un dolcificante come quelli che molti mettono nel caffè.

Per spiegare cosa succede durante il congelamento di una miscela di acqua e zucchero possiamo utilizzare uno speciale grafico, chiamato diagramma di fase, che illustra il comportamento della nostra granita ad una determinata temperatura e concentrazione di zucchero.

Se abbassiamo la temperatura di un bicchiere di acqua pura, a zero gradi questa si trasforma in un blocco di ghiaccio, un unico cristallo. Se invece abbiamo dello zucchero disciolto in acqua, uno sciroppo, le molecole di acqua trovano più difficoltà a formare il reticolo cristallino del ghiaccio, perché le molecole di zucchero interferiscono con la sua costruzione. E' quindi necessario andare a temperature inferiori allo zero per osservare la formazione di cristalli di ghiaccio. Più zucchero è presente più dobbiamo raffreddare per ottenere il ghiaccio. Questo fenomeno, chiamato abbassamento crioscopico, lo possiamo osservare anche sciogliendo del sale o altre sostanze solubili in acqua (è lo stesso effetto che si sfrutta d'inverno quando si sparge del sale sul ghiaccio per scioglierlo)

Oltre ad interferire con la crescita dei cristalli di ghiaccio, gli zuccheri hanno anche la capacità di legarsi ad alcune molecole libere di acqua e di, letteralmente, toglierla dalla circolazione.

Ora, so bene che questo non è un blog di chimica, ma questa volta ho proprio bisogno di un grafico e di un po' di terminologia tecnica, per cui spero che a nessuno venga l'orticaria, ok? :lol:

Nel grafico che vedete, ogni punto rappresenta una possibile soluzione acqua/zucchero ad una determinata temperatura. Supponiamo, ad esempio, di partire con una soluzione al 20% di zucchero a temperatura ambiente, diciamo 20 °C. Nel grafico rappresentiamo la nostra miscela nel punto A.

diagramma-fase-550.gif
Il diagramma di fase della soluzione acqua/saccarosio

Quando raffreddiamo lo sciroppo con cui vogliamo fare la granita ad una certa temperatura inferiore a 0 °C cominciano a formarsi dei cristalli di ghiaccio puro. La temperatura precisa alla quale cominciano a formarsi dei cristalli di ghiaccio dipende da quanto zucchero abbiamo disciolto. E' possibile conoscerla esattamente ma non ci interessa in questo momento. Segniamo sul grafico questo punto con la lettera B.

Cosa succede ora se proseguiamo a raffreddare? Lo zucchero non ha la minima voglia di cristallizzare, e gli unici cristalli che si formano sono quelli del ghiaccio puro.

Lo zucchero rimane in soluzione, che quindi diventa più concentrata perché parte dell'acqua se ne è andata sotto forma di ghiaccio.

Poiché ora la concentrazione dello sciroppo è aumentata,  abbiamo bisogno di una ulteriore diminuzione della temperatura per formare altro ghiaccio. Il nostro sciroppo, nel grafico, si sta spostando lungo la curva (evidenziata dalla freccia rossa).

Cosa succede al ghiaccio che si è separato? I cristallini di ghiaccio vengono lubrificati dallo sciroppo di zucchero, che li mantiene separati ed impedisce che crescano troppo, donando così alla granita la sua consistenza caratteristica. Continuando a raffreddare continua a formarsi ghiaccio, mentre lo sciroppo si concentra sempre più, sino ad arrivare ad un punto speciale, chiamato punto eutettico (E nel grafico), ad una temperatura di -13.9 °C. Al di sotto di questa temperatura la granita è completamente solida perché tutta l'acqua si è trasformata in ghiaccio. Il punto eutettico è un punto ben preciso e univoco (colleghi chimici in ascolto: tralasciamo le complicazioni eh….) caratterizzato dal 62.4% di zucchero alla temperatura di 13.9 °C.

Zuccheri diversi (glucosio, fruttosio, …) hanno punti eutettici diversi e una diversa capacità di legare l'acqua. Magari ne parleremo in futuro quando faremo la granita 2.0 (visto che va di moda fare cose due punto zero ;-) )

Preparando la granita e raffreddando, ci si ferma alla consistenza desiderata, che dipende dalla concentrazione iniziale di zucchero e dalla temperatura raggiunta, che è sempre superiore ai -13.9 °C.

A me piace la granita acquosa, per cui la servo a temperature molto superiori a quella dell'eutettico. Ad altri invece piace molto "asciutta", quasi come se fosse neve, e quindi la raffredderanno di più.

La grandezza dei cristalli di ghiaccio, come ho detto, è determinata dallo zucchero presente: meno zucchero c'è e più sono grandi i cristalli. Ricordate comunque che in una "granita" i singoli cristallini di ghiaccio si devono sentire, non deve essere eccessivamente cremosa. Un altro fattore che influenza la grandezza dei cristalli è la velocità con cui viene raffreddato lo sciroppo: più velocemente avviene il raffreddamento e più piccoli sono i cristalli.

A livello professionale la granita si prepara nei "granitori", verticali od orizzontali. A livello casalingo, a meno di avere qualche elettrodomestico dedicato, ve lo dico subito, non possiamo sperare di preparare una granita della stessa qualità di quella professionale. Però ci possiamo andare vicini.

carpigiani-500.jpg
Il granitore orizzontale brevettato da Poerio Carpigiani nel 1959

Il primo problema risiede nel fatto che i freezer casalinghi raffreddano, solitamente, molto lentamente. Il mio "pusher" di granita, vicino all'ufficio, mi diceva che preparava la granita in 30 minuti, con il granitore. In questo modo i cristalli sono molto piccoli e non danno fastidio sulla lingua o sotto i denti. Il secondo problema è la temperatura: non si dovrebbe scendere mai sotto il punto Eutettico ma i normali freezer casalinghi raggiungono temperature molto inferiori, anche -20 °C, e quindi non sono molto adatti, una volta preparata, a conservare a lungo la granita.

A grandi linee (per la ricetta dettagliata vi rimando alla prossima volta, oggi illustro solo la teoria) per preparare la granita a casa si scioglie lo zucchero in acqua e si aggiunge la frutta frullata. Si ripone in freezer avendo cura di mescolare ogni tanto per evitare la formazione di cristalli troppo grossi. Servite quando raggiunge la consistenza desiderata.

Come vi dicevo, nella procedura casalinga, il rischio è che si formino cristalli troppo grossi. Ancora una volta però la scienza viene in nostro soccorso: dobbiamo trovare un modo per "disturbare" la crescita dei cristalli di ghiaccio, specialmente se vogliamo tenere bassa la percentuale di zuccheri. Abbiamo già incontrato una sostanza in grado di tenere separati i cristalli di ghiaccio: la gelatina. Se vi ricordate, in piccole percentuali, molto più basse delle concentrazioni necessarie a gelificare, la gelatina impedisce la crescita dei cristalli di ghiaccio. Non temete, la granita non assume una consistenza gelatinosa, perché la concentrazione è estremamente bassa. Non ci si accorge minimamente della sua presenza. Per rallentare la crescita dei cristalli potete sciogliere uno o due fogli di gelatina ogni 2 kg di granita. Aumentate la dose se necessario sino alla consistenza desiderata. Non è tradizionale ma funziona (e dopo tutto la tradizione è solo una innovazione riuscita ;-) ). La gelatina non ha nulla di speciale: anche altri polimeri naturali possono funzionare. C'è chi, ad esempio, usa la farina di semi di carrube, o l'amido. Il vantaggio della gelatina è che è completamente insapore ed inodore, a differenza di altri ingredienti, e si può dosare con facilità.

Per ora vi saluto, la prossima volta vedremo una ricetta nel dettaglio: come calcolare lo zucchero necessario e come procedere.

Dario Bressanini

Questo articolo è apparso anche su Le Scienze di Settembre 2008

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Le ricette scientifiche: la granita (algebrica)



 
 

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tramite Scienza in cucina di Dario Bressanini il 14/09/08

Dopo aver esposto la "teoria della granita" veniamo alla pratica.
Gli ingredienti di una granita sono frutta, acqua e zucchero (con un piccolo aiuto, eventualmente, da qualche foglio di gelatina, come abbiamo visto). Si possono ovviamente anche preparare granite non a base di frutta: la granita al caffè è sicuramente quella più famosa.

Ingredienti
  • frutta
  • acqua
  • zucchero
  • gelatina in fogli (opzionale)

La granita algebrica

Allora: abbiamo un po' di frutta e vogliamo preparare una granita. Togliamo i noccioli, se è il caso, e la peliamo, sempre se necessario, e infine la pesiamo. Ora: quanta acqua aggiungere e quanto zucchero?

L'angolo matematico
equazione.gif

L'equazione della granita

Perché aggiungere acqua? Si potrebbe pensare che l'acqua contenuta naturalmente nella frutta sia sufficiente. Perché mai dovremmo diluire il sapore della frutta aggiungendo ulteriore acqua? Beh, il fatto è che il senso del gusto non reagisce in modo lineare, cioè non necessariamente una concentrazione doppia di un aroma la troviamo piacevole il doppio. A quanto pare la maggior parte delle persone trova più interessante e piacevole una granita dove gli aromi della frutta sono ulteriormente diluiti.

Quanta acqua aggiungiamo? Questo dipende dall'intensità dell'aroma della frutta che stiamo utilizzando. E' comodo misurare tutto rispetto al peso della frutta. Se abbiamo pesato F grammi di frutta chiamiamo D (da diluizione) la percentuale di acqua, in centesimi,che desideriamo aggiungere rispetto alla frutta. Ad esempio, D=70 significa che l'acqua aggiunta sarà il 70% rispetto alla frutta pesata. D=150 significa che si deve aggiungere il 150% di acqua, cioè una volta e mezza. Quindi, deciso il valore di D, i grammi di acqua da aggiungere saranno A=F*D/100.

Veniamo allo zucchero. Ricordo che lo zucchero ha la duplice funzione di dolcificare e di mantenere fluida la granita, quindi calcolare la sua esatta percentuale è importante.

Una granita ha una percentuale di zucchero totale compreso, più o meno,tra il 15% e il 20%. Indichiamo con C questa percentuale desiderata. Ad esempio, C=19 significa che la nostra granita ha il 19% di zuccheri totali. Per calcolare correttamente questa percentuale abbiamo bisogno di sapere la percentuale di zuccheri naturalmente presente nei vari frutti. Questa percentuale si può trovare in varie tabelle pubblicate, ad esempio qui. Chiamiamo P questa percentuale, sempre espressa in centesimi.

Spero che a nessuno sia venuta l'orticaria per un poco di algebra ;-) Non preoccupatevi, siamo arrivati in fondo: la quantità in grammi di zucchero che dobbiamo aggiungere (vi risparmio i passaggi)  e' pari a

Z=(F*(C-P)+A*C)/(100 - C)

Potete usare questa formula per guidare i vostri esperimenti, alla ricerca della granita casalinga "perfetta": variando C alterate la dolcezza e la fluidità della granita, mentre variando F (e quindi A) potete aumentare o diminuire l'intensità di sapore lasciando la dolcezza invariata.

Io non amo le granite (o i gelati) troppo dolci, e quindi cerco di tenere la percentuale C attorno a 17, a volte anche meno, aiutandomi con dei fogli di gelatina. Quanta? Anche qui dovete sperimentare: io parto da un foglio di gelatina per ogni chilogrammo di granita. Se la frutta che state usando contiene molte fibre, la gelatina e' superflua perché anche queste contribuiscono a rallentare la crescita dei cristalli di ghiaccio. Se invece utilizzate un succo di frutta già filtrato, potete aumentare la dose di gelatina. Regolatevi voi, anche in base alla consistenza finale che volete ottenere. La quantità di gelatina che si usa è molto inferiore a quella solitamente usata per gelificare Aspic o Bavaresi, per cui non abbiate timore di usarla: è assolutamente inodore e insapore.

Una tabellina

A mano a mano che metto a punto nuove granite nel mio ricettario personale riempio una tabellina come questa (la prossima granita che devo mettere a punto è alla pesca)

Frutta C (Zuccheri totali) D (Acqua)  P (Zuccheri della frutta)
Melone 17 120 7
Anguria 15 100 5
Pesca 6

Se mi mandate le proporzioni di altre granite le potrò aggiungere alla mia tabellina (solo dopo averla assaggiata ovviamente, i gusti sono sempre personali e le ricette vanno sempre adattate, almeno un poco).

Il procedimento passo passo

melone-1-300.jpg Ho preso un bel melone maturo e ho tolto i semi (Ho anche provato a fare la granita di anguria, ed è venuta buonissima, solo che togliere tutti i semini è stata una immane scocciatura ;-)  )Risultato della pesata: F = 590 grammi. Secondo le tabelle nutrizionali circa il 7% sono zuccheri solubili (P=7), quindi sono 41 grammi di zucchero già contenuti.
melone-2-300.jpg Taglio il melone a pezzi e lo metto in una bacinella. Voglio una granita con una percentuale finale di zuccheri del 17%, quindi C=17. La diluizione D che considero ottimale per il mio gusto è di 120.Secondo le formule viste sopra devo aggiungere 708 grammi di acqua. E' inutile dire che se aggiungete qualche grammo in più o in meno non fa differenza.
melone-3-300.jpg Utilizzando un cutter o frullatore a immersione (tipo Minipimer, per intenderci) frullo bene la frutta. Prendo una mestolata di liquido e, a parte, sciolgo un foglio di gelatina secondo la procedura standard: prima la lascio gonfiare una decina di minuti a freddo, e poi scaldo piano piano, mescolando, sino a quando la gelatina si è disciolta. La temperatura non dovrebbe superare i 40 gradi.A questo punto rimetto il liquido con la gelatina nella ciotola e aggiungo lo zucchero, che secondo le formule è di 216 grammi. Mescolo bene con un cucchiaio sino a quando lo zucchero è disciolto tutto. Ripongo in freezer e ogni tanto (diciamo 30 minuti) tiro fuori per raschiare il ghiaccio dalle pareti e rimescolare.
melone-5-300.jpg In realtà trovo molto più comodo, invece che usare una bacinella, mettere il liquido da congelare in un contenitore di plastica chiuso. Ogni tanto lo tiro fuori dal freezer e lo agito violentemente (molto di più di quello che riuscirei a fare con un cucchiaio)
melone-4-300b.jpg Quando la granita ha la consistenza desiderata (a me piace acquosa) la possiamo servire immediatamente. Volendo si può anche frullarla un po', specialmente se vi siete dimenticati di mescolare frequentemente durante il raffreddamento.

Qui sotto potete vedere l'effetto della gelatina: nel bicchiere a destra è stata utilizzata mentre nel bicchiere a sinistra no.

melone-6-500b.jpg
Granita preparata con gelatina (a destra) e senza (a sinistra)

Note

In molte vecchie ricette si suggerisce di far bollire lo zucchero in acqua. Questo accorgimento forse aveva senso una volta, quando lo zucchero poteva essere sporco, pieno di impurezze (tra cui sassi, escrementi di topi, insetti e così via) e non era così ben raffinato e in cristalli piccoli come quello che possiamo comperare noi oggi. I cristalli di zucchero, se sono molto grossi, possono essere difficili da sciogliere in acqua a temperatura ambiente, per cui, probabilmente, oltre che per una questione di "purificazione" dagli intrusi, era anche una maniera per non trovarsi dei cristalli di zucchero indisciolti nella granita. Ovviamente, se avete una gelateria e dovete preparare 30 litri di granita al giorno, è conveniente preparare in anticipo svariati litri di sciroppo di zucchero, per poi miscelarlo alla frutta. In questo caso la bollitura può sveltire i tempi di preparazione.

melone-7-200.jpgAlcune vecchie ricette addirittura suggeriscono di far bollire la frutta, assieme allo zucchero e all'acqua. Questo secondo me non va proprio fatto: si rovina il delicato aroma della frutta fresca e, in ogni caso, non se ne capisce proprio il bisogno. Non dico che sarebbe come fare la granita con la marmellata, ma…, insomma….. :lol: . E non mi interessa se sia tradizionale o meno, a mio parere non si deve fare. Punto. ;-)

Il lettore Gian Luigi, in un commento al post precedente, suggerisce una ipotesi sul perché alcune vecchie ricette diano questo suggerimento: facendo bollire la frutta si libera la pectina e questa agisce come la gelatina, aiutando a mantenere piccoli i cristalli di ghiaccio. Credo sia una ipotesi plausibile (anche se da verificare con un esperimento). Forse qualcuno aveva notato, empiricamente, che la granita alla pesca, ad esempio, veniva più cremosa facendo bollire la frutta. Tuttavia è errato generalizzare questa procedura perché alcuni frutti molto acquosi spesso usati nelle granite, l'anguria ad esempio, contengono molta poca pectina.

Il contenuto zuccherino della frutta che troviamo nelle tabelle è un dato medio, ovviamente. Ci sono meloni, ad esempio che contengono più del 7% di zucchero come riportato in tabella. In più, quella percentuale non si riferisce solo al saccarosio, ma anche agli altri due zuccheri tipici della frutta: il glucosio e il fruttosio, e questi due zuccheri hanno una dolcezza differente, oltre che punti eutettici differenti. Insomma, tutto questo per dire che dovete, quasi sicuramente, adattare le ricette alla frutta che voi avete disponibile, secondo il vostro gusto.

La granita alla mandorla

condorelli-200.jpg

Ovviamente non potevo non preparare la granita alla mandorla. Come previsto, non ha la stessa qualità di quella assaggiata al Caffè Sicilia a Noto. Vuoi perché, come ho descritto la volta scorsa, l'attrezzatura casalinga è quella che è, ma forse anche perché ho usato del latte di mandorla (Condorelli) in cartone e non preparato al momento da un panetto di pasta di mandorle. Tuttavia non era affatto male.

Stendiamo invece un pietoso velo su un precedente tentativo fatto con un anonimo sciroppo dal colore grigiastro e iperzuccherato, in bottiglia di vetro.

Anche in questo caso ho preferito aiutarmi con della gelatina. Per le dosi, invece che calcolarle, ho preferito seguire (quasi) le istruzioni riportare sulla confezione riducendo solo lo zucchero, visto che la fluidità finale è aiutata dalla gelatina. Il risultato lo potete vedere nella foto qui sotto.

miagranita-500.jpg

termometro-granita-200.jpgSe non consumate tutta la granita, non avete altra scelta se non quella di riporla in freezer. Come ho spiegato la volta scorsa, la temperatura del freezer va sotto quella del punto eutettico e quindi otterrete un blocco totalmente solido.

Nella foto potete vedere la mia granita alla mandorla dopo una notte di freezer. Il termometro segna i -18.9. Per poterla consumare non dovete fare altro che toglierla dal freezer e aspettare. Se avete fretta e se il contenitore non e' di metallo potete provare a riscaldare dolcemente con il microonde, a bassa potenza e per 15 secondi alla volta. Quando la granita comincia ad ammorbidirsi un po' potete frullare tutto e servire, magari aggiungendo un poco di latte di mandorla, se vi è avanzato.

Badate che durante la notte in freezer i cristalli di ghiaccio saranno cresciuti, e la consistenza non sarà come quella che avete assaggiato il giorno della preparazione, ma se la gelatina avrà funzionato a dovere sarà comunque buona, comunque meglio di certe porcherie ;-) che a volte capita di assaggiare, fatte con ghiaccio tritato e aromi in bottiglia dai colori improbabili aggiunti alla fine.

Buona granita a tutti

Dario Bressanini

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